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Osservazioni di un messaggero impegnato
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Questa nota è stata redatta da Didier Saint Georges, Responsabile del team Portfolio Advisors e Membro del Comitato Strategico di investimento di Carmignac. Quando ha deciso di andare in pensione, Didier ha condiviso questa testimonianza personale sulla gestione Carmignac vista dall’interno. Pensata inizialmente come un documento interno, abbiamo ritenuto che potesse essere interessante per tutti coloro che vogliono saperne di più su Carmignac, il suo stile di investimento e la sua cultura unica.
La preistoria
Edouard Carmignac era ancora un agent de change quando mi assunse la prima volta nel 1987. All’epoca avevo al mio attivo appena tre magri anni di esperienza professionale come analista finanziario in Citibank. Nel 1989 Edouard lasciò la società di brokeraggio in compagnia di Eric Helderlé per fondare Carmignac Gestion mentre io decisi di rimanere nel mondo dell’intermediazione, in piena fase di espansione dopo il Big Bang finanziario degli anni ‘80. Nel 2007, quando ero ormai stanco del mestiere di broker che avevo esercitato per diciotto anni prima in JP Morgan poi in Merrill Lynch, Edouard mi assunse di nuovo, sebbene fossi ancora del tutto inesperto in materia di gestione e distribuzione di fondi come vent’anni prima lo ero stato nell’intermediazione.
Devo quindi a queste scommesse reiterate di Edouard una parte importante del mio percorso professionale. Sono stato il fortunato beneficiario di uno dei suoi principali tratti di personalità, che consiste nel riconoscere e sfruttare il potenziale di una situazione piuttosto che seguire un piano di battaglia prestabilito. L’asset management è naturalmente l’attività nella quale questa sfaccettatura del suo carattere ha trovato il terreno di applicazione ideale. Grazie all’aiuto di Edouard, negli ultimi quattordici anni ho potuto scoprire il mondo della gestione dall’interno, anche se, come il conte de Lavalette, l’aiutante di campo di Napoleone, non ho mai avuto dubbi su chi fosse ai comandi.
In teoria, non c'è nessuna differenza fra teoria e pratica. Ma, in pratica, c'è
– Yogi Berra
Nel 2007 avevo scritto un libretto che sottolineava come la promessa della gestione attiva, sovraperformare durevolmente la gestione passiva, fosse particolarmente presuntuosa, in quanto questa pretesa contraddice sia la teoria che la pratica. Quanto alla teoria, l’economista Harry Markowitz, Premio Nobel negli anni ‘90, aveva sostenuto che l’efficienza dei mercati rendeva questi ultimi estremamente difficili da battere nel lungo termine. Nella pratica, molti studi statistici sembravano dare ragione a Markowitz: statisticamente la gestione passiva sopravanza ampiamente la gestione attiva nel tempo, essendo rarissimi i gestori attivi che riescono a battere gli indici abbastanza spesso. Nonostante la mia posizione, Edouard aveva gentilmente accettato di scrivere la prefazione del mio libro. Forse perché suggerivo che alcune gestioni dovevano pur essere in grado di smentire la regola di Markowitz. Infatti è proprio la grande difficoltà nel sovraperformare il mercato a fornire la possibilità ad alcuni gestori attivi, e soltanto ad alcuni, di riuscirci. Ciò riflette un ineluttabile paradosso: se fosse facile battere il mercato, in realtà sarebbe impossibile riuscirci, poiché moltissimi gestori attivi si precipiterebbero a cogliere (scegliere) le opportunità, facendole scomparire immediatamente. La gestione attiva è quindi un approccio giustificabile, ma per definizione potrà arridere solo a un’esigua minoranza di società di gestione. In tal modo non solo è meritocratica, ma è anche aristocratica per natura. Comprendere come ottenere questo status nobiliare solleticava la mia curiosità, dal canto suo Edouard non aveva il minimo dubbio sul fatto che la natura elitaria del settore avrebbe giocato a suo favore. Fu quindi con entusiasmo che mi unii ancora una volta all’avventura Carmignac, quattordici anni fa.
Immergendomi nel nostro stile di investimento, ho potuto confermare la fondatezza della tesi che avevo difeso. Ma soprattutto ho capito perché la singolarità del modello di gestione Carmignac permette di raccogliere la sfida della gestione attiva.
In fondo, siamo tutti esseri collettivi
– Goethe
Per prima cosa ho avuto modo di constatare che la gestione comporta innanzitutto un lavoro enorme. Approfondire più di quanto facciano i concorrenti, riflettere meglio per anticipare (ma non troppo) ciò che riserva il futuro, prima di essere raggiunti dal consensus. Le rare volte in cui la nostra performance ha attraversato momenti travagliati duraturi, mi è parso che un certo rilassamento di questa operosa disciplina ne fosse in parte responsabile.
Poi ho potuto osservare che la “fabbrica delle convinzioni” è davvero forte solo quando si basa su una riflessione collettiva efficace. È il ruolo cruciale dei nostri “morning meeting”, pilastri emblematici della gestione Carmignac.
Come ai tempi di Re Artù, i prodi si ritrovano attorno alla Tavola e vanno insieme alla ricerca del Graal. Queste riunioni sono il luogo in cui Edouard stimola una contraddizione feconda tra i cavalieri. Parafrasando Popper, i morning meeting sono il luogo del dibattito amichevole e ostile. Mettere in luce le realtà che si sottraggono all’analisi, smentire le impossibilità teoriche. È sempre in questa fase che una parte dei bias cognitivi individuali può essere superata. Per ogni idea, sforzarsi di pensare il contrario. O, per dirla come Pascal, alla fine di ogni verità ricordarsi della verità opposta. Ma non è facile dimostrare nei fatti il tanto reiterato mantra secondo cui il lavoro di squadra permette al tutto di essere superiore alla somma delle parti. Questo esercizio in cui il confronto dei pareri dei singoli produce la ricchezza collettiva richiede molte energie. La difesa delle convinzioni individuali deve coniugarsi con l’apertura alle nuove idee in discussioni talvolta accese. Bisogna saper afferrare la palla al balzo come in una partita di rugby quanto saper mantenere la distanza come in una cordata in alta montagna. Come avviene in un camino costantemente ravvivato, soltanto la legna più dura può ardere a lungo. Per questo motivo, in Carmignac forse più che altrove, quando ci si immerge nella gestione, lo si fa con la prospettiva che si giungerà allo stremo. Ma, come in alta montagna, lo sfinimento ti fa vivere.
E se la nostra Tavola non è esattamente rotonda, forse è anche perché Edouard è dotato non soltanto della genialità del dubbio ma anche di un’eccezionale tenacia.
L’istante della decisione è follia
– Kierkegaard
Spesso nell’attività di gestione s’insinua anche l’intuito e per lungo tempo ho diffidato di queste incursioni. In linea con il parere espresso da Daniel Kahneman nel suo eccellente libro Pensieri lenti e veloci, tendo a considerare l’intuito un espediente dettato troppo spesso dalla pigrizia per evitare il necessario lavoro di riflessione, un mezzo poco impegnativo per eludere l’approfondimento, abbandonandosi comodamente all’istinto (“hunch” o “gut feeling” per gli anglofoni), notoriamente soggetto ai bias psicologici più subdoli (sempre inconsci, come sottolinea Kahneman).
Eppure nel corso degli anni il mio razionalismo monomaniacale ha dovuto riconoscere che il ragionamento logico da solo non riesce a venire completamente a capo dei mercati, perché il materiale di base dell’analisi di gestione comprende la moltitudine dei dati disponibili sia economici che finanziari, extra finanziari, politici e tecnici, i quali contengono in uguale misura (se non in prevalenza) rumori di fondo e informazioni utili. Estrarre i dati importanti dal groviglio di eventi e cifre, fare la giusta cernita tra essenziale e superfluo nello strepitio dei dati che ogni giorno affluiscono sugli schermi è un compito arduo. La ricerca della conoscenza assoluta è senza fine. E questo immane sforzo sfocia su informazioni incomplete e incerte. A un certo punto il gestore deve decidere, e lo farà sempre in un contesto d’incertezza. Quando tutti i ragionamenti sono stati espressi, necessariamente spetta anche all’intuito dire la sua. Forse un giorno l’intelligenza artificiale permetterà di superare i nostri limiti (realizzando forse la profezia di Marcowitz secondo la quale resterà solo la gestione indicizzata). Nel frattempo la decisione di gestione attiva non può essere una semplice questione di logica. La purezza intellettuale non è una condizione sufficiente per generare performance. Bisogna anche fiutare la realtà. Qui emergono le nozioni di carattere e di talento, indispensabili nella gestione attiva poiché il gestore deve dominare il pensiero razionale per poterlo superare, avere l’audacia di andare oltre la conclusione logica di un ragionamento, che, seppure perfettamente costruito, sarà sempre insufficiente. Ritornerò su questo punto.
La visione senza l’esecuzione è allucinazione
– Thomas Edison
Inoltre, se è vero che stimare l’andamento dei valori economici è frutto di un’analisi oggettiva (dell’evoluzione degli utili di una società o della crescita di un’economia), valutare il prezzo futuro degli asset finanziari e, di conseguenza, la direzione dei movimenti di mercato non significa affatto scoprire verità assolute nascoste, secondo il concetto platonico. Si tratta invece di prevedere il modo in cui queste stime, sempre che si rivelino esatte, si tradurranno in prezzi di mercato attraverso il consensus. Investire significa sempre cercare di precedere il mercato. Ma l’ultima parola spetta comunque al mercato.
Quando si formulano proiezioni sperando di trarne beneficio in futuro se si rivelano esatte, ciò che conta è capire in quale misura l’attuazione di una convinzione, anche se corretta nel lungo termine, giustifichi il prezzo di avere avuto torto nel breve termine. La risposta fluttua in uno spazio misterioso e sfuggente tra i due estremi, che sono da un lato la gestione basata su convinzioni perentorie (ciò che avviene spesso, con costi altissimi, nella gestione “value” pura), fiera di affermare a qualunque costo la propria verità contro il mercato, e dall’altro la gestione rigorosamente “momentum”, che alle convinzioni preferisce la totale sottomissione alla direzione dei mercati.
In pratica occorre mettere a confronto nel migliore dei modi la propria idea di gestione e la “lettura” del mercato. Cercando di capire se il mercato è pronto o meno a “convalidare” rapidamente la nostra idea. Il minimo accenno di convalida permetterà di implementare la convinzione con più fiducia. Al contrario, una secca smentita rimanderà a più tardi o farà abbandonare per sempre l’attuazione di quell’idea, che seppure razionale e interessante, è perdente.
Questo gran mondo è lo specchio in cui dobbiamo guardare per conoscerci dal lato giusto
– Michel de Montaigne
Il primo ostacolo di questo processo interattivo tra giudizio e mercato è che può facilmente condurre a tentennamenti poiché il mercato spesso non esprime il suo verdetto in maniera chiara e definitiva. Il gestore può quindi esitare a lungo, apportare molteplici modifiche alle sue posizioni, prima in un senso e poi nell’altro. Spesso ho sentito Edouard mettere in guardia i suoi gestori contro questa trappola utilizzando l’analogia del giardiniere, che a furia di potare costantemente la sua pianta per farle assumere una forma perfetta, finisce col ridurla a un cespuglio gracile e macilento. Nella gestione basata su convinzioni è preferibile avere globalmente ragione piuttosto che specificatamente torto.
Il secondo ostacolo è che se si cerca sufficientemente a lungo la conferma del proprio giudizio attraverso la lettura dei mercati, spesso si finisce per trovarla anche se non c’è, per effetto del noto “bias di conferma”, padrino di tutti i bias cognitivi, che in misure diverse ci affligge. Risulta infatti irresistibile la tentazione di ricercare la conferma del nostro giudizio, distogliendo l’attenzione da ciò che potrebbe contraddirlo. Tendiamo tutti inconsciamente a considerare vero quello che vorremmo fosse tale. Anche per i gestori più esperti, questo bias rappresenta costantemente una trappola.
Il canto del segno
Un mezzo per ovviare al bias di conferma consiste nel basare l’analisi di mercato su protocolli d’interpretazione stringenti e totalmente oggettivi. Non cercare di confermare l’analisi fondamentale, di stabilire nessi causali tra gli eventi passati o previsti e i comportamenti dei mercati, ma limitarsi a individuare i segni e le correlazioni grafiche nei movimenti dei mercati al fine di dedurne i probabili sviluppi.
La strana conseguenza di questa pratica rigorosa è che ignorando le cause (a parte il presupposto psicologico del ripetersi dei comportamenti degli attori coinvolti) per concentrarsi solo sulle analogie, l’analisi grafica rinuncia espressamente alla comprensione. Una configurazione specifica (superamento di una media mobile, figura Testa e Spalle, “double top”, ecc.) rimanda a un messaggio chiaro in base ai codici dell’analisi dei grafici. Piuttosto che tentare di interpretare i movimenti dei mercati alla luce dell’analisi del contesto, lo studio dei grafici si sottopone volontariamente alla tirannia del segno. Tuttavia l’analisi grafica dimostra una certa efficacia pratica perché quando è ampiamente condivisa diventa di fatto autorealizzante. Poco importa che un gatto sia nero o bianco purché acchiappi topi, come diceva Deng Xiaoping.
Ma in astratto, l’analisi grafica – secondo me – è una sorta di capitolazione poco ambiziosa del pensiero: basata esclusivamente sull’ipotesi che il maggior numero di osservatori daranno in generale la stessa interpretazione degli stessi segni, difficilmente può aspirare ad essere una fonte importante di sovraperformance nel lungo termine.
L’analisi grafica deve essere per la gestione ciò che l’esperienza è per la fisica: un mezzo per scoprire in quale misura la pratica conferma la teoria. Non vi è altra scelta, mi sembra, se non cercare di mantenere sufficientemente le distanze da una cieca fiducia nelle figure del mercato, evitando allo stesso tempo la trappola dei bias cognitivi. In altre parole, esercitare in maniera molto disciplinata la propria libertà senza accontentarsi di seguire i segni, ma facendoli parlare.
L’arte è il risultato di una costrizione
– André Gide
Così, come per l’interpretazione musicale, il successo della gestione attiva scaturisce dalla sacra unione tra rigore e libertà. Come avviene anche nell’alpinismo, si deve godere del panorama guardando anche dove si mettono i piedi, fare proprio il paradosso di esercitare la nostra libertà in un contesto incerto e pieno di costrizioni. Mettere a confronto narrazione e realtà, senza dare per scontato che la prima sia necessariamente meno vera della seconda. Ascoltare “ciò che dice il mercato” per poterlo mettere in discussione. Il difficile equilibrio tra intelletto e sensibilità, rigore e istinto, ecco come si esprime questa capacità inafferrabile, enigmatica eppure essenziale che va ben oltre la tecnica e che si chiama, con ragione, talento.
L’arte è sempre minoritaria. Come avviene per gli atleti, i musicisti, i pittori, gli scultori, gli architetti, è quando l’audacia si sposa con la disciplina, quando il lavoro più serio evita la seriosità, quando la profondità non impedisce la leggerezza che può nascere l’azione giusta e fare la differenza. E quando questo talento si manifesta nei momenti cruciali fa sì che la nostra gestione sia splendidamente dissidente.
There is a crack in everything, that’s how the light gets in
– Leonard Cohen
Torniamo ora sulla decisione di gestione.
L’umiltà del saper ascoltare tutti gli argomenti permette di raggiungere il punto di Archimede in cui si è abbastanza audaci da decidere da soli, quando i tempi sono maturi. E come abbiamo visto, questa mossa impetuosa comporta sempre un’assunzione di rischi in una situazione d’incertezza. Come in medicina, la gestione attiva è sempre esposta al rischio d’insuccesso, e spesso lo sfiora. Si stima che i migliori gestori riescano a prendere le decisioni giuste solo nel 60% dei casi. Aleggia ancora l’ombra di Markowitz…
L’insuccesso è dovuto agli errori ma anche al caso, che distribuisce generosamente colpi di fortuna e di sfortuna. L’insuccesso fa parte della gestione attiva. Esige forza di carattere per accettarlo, e intelligenza per trarne lezioni utili per il futuro.
Ma non tutti gli insuccessi sono uguali. La distribuzione statistica delle performance di mercato nel lungo periodo non segue una legge normale e non si raggruppa ragionevolmente intorno a una media. Al contrario, talvolta è soggetta ad anomalie particolarmente vistose, molto lontane dalle medie storiche, che a seguito di una crisi finanziaria, di una pandemia o di qualsiasi motivo ancora ignoto possono in pochi mesi azzerare il frutto di anni di performance, e perfino ingoiare l’intero capitale dei risparmiatori. Questi momenti sono cruciali e Carmignac si è in buona parte guadagnata la reputazione sulle vittorie conseguite nei periodi di crisi dei mercati.
Ma la capacità di prosperare nel tempo la dobbiamo anche alla nostra gestione del rischio.
Il saggista Nassim Taleb ha descritto l’”effetto Lindy” secondo il quale, per tutto ciò la cui durata di vita non è limitata per natura, la speranza di vita è tanto maggiore quanto più lunga è l’esistenza passata. Ascolteremo ancora i Rolling Stones tra sessanta anni, mentre l’ultimo tormentone dell’estate probabilmente sarà dimenticato tra poche settimane, ascolteremo Beethoven ancora tra due secoli e si leggerà ancora la Bibbia tra duemila anni.
Questa regola, che è anche una previsione, nasce dall’osservazione secondo la quale i tempi lunghi sono il miglior test di resilienza di un modello, di un organismo e di un fenomeno. Sono i tempi lunghi che permettono – grazie all’esperienza nel superamento delle crisi – di mettere alla prova la reale resistenza, o l’antifragilità, ossia la qualità che permette non solo di essere resistente agli shock ma di uscirne addirittura rafforzato. Da oltre trent’anni è dimostrato che la gestione delle crisi di mercato ha conferito a Carmignac la qualità di “antifragilità”.
Nel 2017 ho scritto un documento interno di 30 pagine sull’Arte difficile e solitaria della gestione dei rischi, dove spiegavo che la gestione del rischio, prima di essere una questione di applicazione delle tecniche, è innanzi tutto una questione di cultura. In assenza di questo rapporto superiore con il rischio, i dati grezzi e il calcolo avrebbero rapidamente la meglio sul giudizio e la responsabilità nei confronti dei clienti. Dimostravo come questa cultura consista nell’abbracciare l’incertezza intrinseca dei mercati (bisogna conoscere i rischi per poterli individuare), soprattutto per sapere quali rischi non si vogliono correre. E poi nell’avere fiducia nell’azione quando si è confrontati a ciò che non può essere previsto. Per tornare all'analogia tra la gestione e l'alpinismo voglio ricordare che le guide più esperte trasmettono conoscenze, certo, e tecnica, ma soprattutto valori: il coraggio prima di tutto, che Jankélévitch diceva essere la virtù primaria, quella che rende possibili tutte le altre, l'impegno e soprattutto la responsabilità. L'investimento è sempre responsabile.
Noblesse oblige
La gestione attiva, come viene attuata in Carmignac, si ispira quindi a una forma di morale aristocratica che punta all'eccellenza tanto quanto alla performance. Quanto alla sua ragion d'essere, essa consiste nel mettere questa etica al servizio del maggior numero di persone. Ci assumiamo la piena responsabilità dei risparmi affidatici dai nostri clienti, e questa fiducia è un impegno vincolante.
La fiducia è vincolante non solo per la nostra gestione ma anche per la sua fedele rappresentazione. Più che un atto di trasparenza, che può dire tutto senza mostrare nulla e produce solo informazione e non conoscenza, e ancor meno adesione, più che un atto di eloquenza che spesso è un modo di abbellire la realtà, “rappresentare la gestione” è un esercizio di traduzione, mi sembra. L’obiettivo è rispettare l'originale in termini di prospettiva, spirito e stile, senza perdere nulla del significato.
Uno dei miei ricordi più belli degli ultimi quattordici anni è quello di un consulente di investimento, diventato poi un amico, che dopo una delle mie presentazioni mi ha detto: "Ascoltare la tua presentazione mi ha fatto bene". La bellezza del ricordo sta nel fatto che le prospettive che avevo appena delineato per i mercati erano piuttosto fosche. Ma questo consulente aveva apprezzato la nostra particolarità e la concezione che abbiamo della professione. Ha capito il nostro impegno indefettibile nei confronti della missione. Gli abbiamo ispirato fiducia riconoscendo le nostre imperfezioni, senza mai rinunciare alla nostra responsabilità né alle nostre ambizioni. Da allora si sforza di trasmettere ai suoi clienti investitori che Carmignac è, e continuerà ad essere, un baluardo contro l'industrializzazione impersonale della gestione e contro la convinzione del narratore di Alla ricerca del tempo perduto quando dichiara "L'istinto di imitazione e l'assenza di coraggio governano le società quanto le folle".
Ho sempre provato grande piacere nel tradurre la complessità della nostra gestione in termini semplici, nel far capire la rilevanza di un'analisi macroeconomica, o le idee che governano la costruzione di un portafoglio. Questo esercizio didattico, svolto insieme ai colleghi del comitato d'investimento, ai gestori, agli analisti, agli specialisti di prodotto e ai commerciali, è stato un’inesauribile fonte di gioia. Ma collettivamente il nostro ruolo consiste anche nel distogliere i nostri interlocutori da una lettura quotidiana dei dati grezzi, per portarli alla comprensione del significato. Quando parliamo con i nostri clienti trasmettiamo loro la nostra idea di gestione.
Un capo è un uomo che ha bisogno degli altri
– Paul Valéry
Questo culto esigente della libertà non è solo un formidabile vettore di performance. Ma ci permette da trent’anni di attrarre i migliori gestori, che da noi trovano il terreno ideale per esprimere il loro talento. Ecco perché la difficoltà inerente alla gestione attiva non è considerata un ostacolo in Carmignac, al contrario. Questi quattordici anni mi hanno concretamente dimostrato che il nostro modello di gestione è perfettamente in grado di affrontare la sfida della gestione attiva a lungo termine. In senso più ampio, Edouard, Eric, poi Maxime e Christophe mantengono la società al passo con l’evoluzione del contesto nel quale opera. La loro vigilanza, che comporta un forte elemento di anticipazione, si è espressa anche con l'arricchimento costante dei team grazie a nuovi talenti in grado di fondarsi sul passato di Carmignac per costruirne il futuro. Questo vale per tutti i dipartimenti e tutte le nostre sedi, a Parigi e in tutta Europa.
Il proficuo lavoro dei team si traduce in successi. Ma ci permetterà anche di attingere alla nostra dinamica singolare e sempre più forte per affrontare le crisi che inevitabilmente si presenteranno nei prossimi trent'anni.
Nassim Taleb direbbe che il modello Carmignac è intrinsecamente "Lindy-compatibile".
Aggiungo che questa virtù si nutre anche della nostra passione collettiva per le battaglie condotte con successo.
E, come diceva Baudelaire, il peggior vizio è la noia.