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Trump, ovvero il mercantilismo 3.0

Giugno 2019

Fino alla fine di aprile i mercati azionari hanno continuato a registrare un andamento da equilibrista, in bilico tra attività economica in fase di ripresa e incertezza in termini di sostegno monetario (si veda la nostra Note dello scorso aprile “Equilibrio delle forze”). A partire dal mese di maggio, l’impatto dell’inasprimento della posizione dell’Amministrazione Trump nelle trattative commerciali con la Cina ha ricordato agli investitori la fragilità di questo equilibrio.

Pertanto, dopo alcuni forti rimbalzi, i mercati azionari sono al momento nuovamente calati quasi ai livelli di fine marzo. I mercati obbligazionari continuano invece a lanciare il messaggio inequivocabile di una crescita globale che presenta un trend negativo e deflazionistico.

Nell’immediato, la domanda che i mercati devono porsi è valutare se la possibilità di una nuova accelerazione della crescita globale – trainata dal piano di stimoli cinese, dagli effetti base positivi dopo la turbolenza registrata nel 2018, dalle politiche monetarie accomodanti a livello globale, e dalla resilienza dell’attività economica statunitense – possa prevalere sul rallentamento dell’economia statunitense, vittima dell’eccessivo inasprimento monetario del 2018, del naturale stato avanzato di un ciclo economico già molto lungo, degli effetti boomerang di una politica commerciale nettamente mercantilista, e che quindi ostacola qualsiasi rimbalzo dell’attività economica globale.

Per la prima volta da trent’anni a questa parte, i fattori geopolitici potrebbero tornare a penalizzare profondamente il commercio mondiale

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Al momento la nostra valutazione resta invariata: il mantenimento dell’equilibrio tra queste due forze è fragile e la possibilità di un eventuale capovolgimento è ampiamente ostacolata dai vincoli sia strutturali (eccessivo indebitamento, vincoli delle politiche monetarie) che congiunturali (tensioni commerciali), che lo impediscono. Più a lungo termine, l’interrogativo che non può essere ignorato verte sulla portata a livello globale della crescente rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti. Per la prima volta da trent’anni a questa parte, i fattori geopolitici potrebbero tornare a penalizzare profondamente il commercio mondiale.

Stati Uniti contro Cina: c’è spazio per due potenze mercantiliste?

Pare che i mercati abbiano tardato a riconoscere che le recenti tensioni tra Stati Uniti e Cina più che un conflitto commerciale riflettono una rivalità strategica. L’opera Death by China di Peter Navarro, consulente molto apprezzato di Donald Trump, risale tuttavia al 2011 e rispecchia senza ambiguità il celebre “complesso di Tucidide” che affligge attualmente gli Stati Uniti nei confronti della Cina (per analogia con la rivalità che Sparta, nell’antica Grecia, ha provato nei confronti del crescente imperialismo di Atene, e che ha portato alla guerra del Peloponneso).

In modo meno bellicoso, le tensioni tra Cina e Stati Uniti possono anche essere interpretate come una rivalità incontenibile tra due potenze mercantiliste (si veda la Note di aprile 2017, “Gli investitori di lungo periodo dovrebbero diffidare del populismo”). Gli Stati Uniti di Donald Trump non credono ai vantaggi del libero scambio, di cui si considerano “vittime” e a cui preferiscono, come nel XVII secolo l’Inghilterra, l’Olanda o la Francia di Colbert, lo sfruttamento brutale di un rapporto di forza favorevole nei confronti dei propri partner commerciali. Tutto ciò allo scopo di arricchire il paese attraverso la produzione di surplus commerciali e sostenere gli investimenti industriali nazionali. Questa politica commerciale entra ovviamente in conflitto diretto con quella della Cina, a sua volta accusata, e non a torto, di un comportamento altrettanto mercantilista. Logicamente, prima o poi verrà estesa a tutti quei paesi la cui bilancia commerciale positiva con gli Stati Uniti ostacola le ambizioni mercantiliste dell’Amministrazione Trump, a partire dalla Germania e dal Giappone.

Se ne deduce che l’aumento delle tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e i partner commerciali sia insito nel modello economico scelto dall’Amministrazione Trump e, nel caso della Cina, si sommi a una rivalità geo-strategica. L’intensità di quest’ultima è dimostrata dal forte attacco sferrato a Huawei, società di fondamentale importanza per la Cina, da un governo statunitense che non esita a utilizzare un esagerato potere di extraterritorialità nei suoi decreti di boicottaggio per tentare di isolare il gruppo cinese in modo irreparabile.

Il problema per noi investitori è il fatto che rimettere in discussione il modello di “globalizzazione felice” degli ultimi decenni aggiunge alle incertezze a breve termine la minaccia permanente di una destabilizzazione delle catene logistiche globali per i margini delle imprese, di un aumento dei costi per i consumatori e di un rallentamento del commercio mondiale. Difficile, almeno in questo contesto, attendersi una rivalutazione significativa dei mercati azionari partendo dai livelli attuali, in assenza di un nuovo deus ex machina sulla scena monetaria.

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Le Banche Centrali hanno ancora il controllo della loro pietra filosofale?

Vi è il rischio che la pressione dei mercati debba aumentare ancora di più prima che un’inversione di rotta decisiva della politica monetaria possa cambiare lo scenario in modo adeguato

Da dieci anni a questa parte i mercati si sono abituati al fatto che le Banche Centrali trasformino, con un colpo di politica monetaria magica, qualsiasi cattiva notizia economica o politica in buona notizia per i mercati. Il 2018 ha fornito la misura della pericolosa dipendenza dei mercati da questo abbondante sostegno. Il loro rimbalzo nei primi quattro mesi del 2019 si è ancora una volta verificato dopo il messaggio in cui la Fed assicurava di non cambiare rotta nel breve periodo.

Per i mercati il problema è costituito dal fatto che, nonostante il ciclo di rialzo dei tassi di riferimento avviato due anni fa sia stato interrotto, quest’anno l’economia statunitense ha continuato a rallentare, mentre la riduzione del bilancio della Fed proseguirà ancora fino al mese di settembre. Di conseguenza, mentre l’aspettativa di un taglio dei tassi d’interesse sostiene la resilienza dei mercati e allo stesso tempo impedisce al dollaro di apprezzarsi maggiormente, e questo anche durante la flessione dei mercati registrata a maggio, la realtà è che la politica monetaria così come condotta attualmente sostenga la crescita statunitense come la corda sostiene l’impiccato. La FED dovrà assumere una piega molto più accomodante per arginare gli effetti deflazionistici su una crescita, già in rallentamento, derivanti dall’inasprimento delle tensioni commerciali con la Cina, a maggior ragione nel caso la valuta cinese dovesse indebolirsi sensibilmente.

Vi è quindi il rischio che la pressione dei mercati debba aumentare ancora di più prima che un’inversione di rotta decisiva della politica monetaria possa cambiare lo scenario in modo adeguato. Per quanto riguarda la Banca Centrale europea e quella giapponese, i loro margini di azione sono ormai molto ridotti, in particolare nel caso della BCE, per cui il prossimo mese si saprà se in caso di necessità il nuovo Presidente, che succederà a Mario Draghi nel mese di ottobre, sia disposto a dimostrare la stessa flessibilità e inventiva del suo predecessore.

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L’Europa tra l’incudine e il martello

In questo contesto complesso, l’Europa non si trova in una posizione di forza. Oltre ai limiti del sostegno monetario in cui può confidare, e che nello scenario di una “guerra dei cambi” tra Cina e Stati Uniti la penalizzerebbe con un eccessivo apprezzamento dell’euro, l’Europa presenta molte criticità. Il recente esito delle elezioni europee non è affatto in discussione. Alcuni importanti partiti tradizionali sono stati decimati, in particolare in Francia e nel Regno Unito, ma l’interesse per l’Europa si è invece confermato; il peso relativo dei partiti euroscettici è nel complesso poco cambiato rispetto al 2014, e la crescente comunanza di interessi per politiche di crescita più energiche dovrebbe invece alimentare maggiore consensus che in passato.

La difficoltà è altrove. Risiede innanzitutto nel processo di riforme che pare essersi interrotto a tempo indeterminato. A livello locale molti paesi europei, tra cui Italia e Francia, non hanno ripristinato alcun margine di azione fiscale per contrastare il prossimo rallentamento economico, mentre a livello dell’Unione il progetto di Macron di istituire un budget per la ripresa europea è permanentemente in fase di stallo. L’altra fonte di vulnerabilità deriva da una situazione molto passiva nella rivalità tra Cina e Stati Uniti. Quest’ultima rischia infatti di risultare penalizzante sia in caso di peggioramento delle prospettive economiche globali (il ritmo dell’attività economica in Europa è strettamente legato alle dinamiche del commercio mondiale), che in caso di un eventuale accordo commerciale tra Cina e Stati Uniti, per quanto precario, che avrebbe ripercussioni negative sull’Europa. La coesione economica e politica dell’Europa e la potenza dei gruppi europei sono attualmente insufficienti per difenderne gli interessi in modo efficace in un contesto globale di crescenti rivalità mercantiliste. Il settore automobilistico europeo riuscirà a evitare di assumere il ruolo di principale capro espiatorio di questa vulnerabilità?

Diffidenza e rigore quindi sui mercati, nonostante il rimorso degli analisti finanziari che gradualmente stanno tornando all’eccesso di pessimismo di inizio anno, quando avevano fatto crollare le stime sui risultati delle imprese per il 2019. È per questo motivo che negli ultimi due mesi abbiamo mantenuto e rafforzato una strategia di investimento prudente. Si rispecchia nei portafogli azionari attraverso livelli di esposizione moderati, privilegiando i titoli a crescita poco ciclica. Per quanto riguarda i portafogli obbligazionari, presentano duration abbastanza elevate, e posizioni nelle obbligazioni corporate estremamente selettive.

Fonte: Bloomberg, 31/05/2019

Strategia di investimento