Luglio 2019
A metà del 2019, nonostante notizie ricche di colpi di scena politici e geopolitici, non c’è motivo di variare l’interpretazione generale dei mercati che avevamo proposto al termine del primo trimestre. La “Realtà aumentata” , titolo della nostra Note del mese di marzo, faceva riferimento al contesto reale di debolezza del ciclo economico globale che, a differenza del 2018, veniva rafforzato da politiche monetarie tornate palesemente a sostegno dell’economia e dei mercati. Da allora, la saga delle trattative commerciali (si veda la Note di giugno “Trump, ovvero il mercantilismo 3.0”) ha soltanto reso decisamente più frizzante un quadro generale relativamente mite per i mercati azionari (si veda la Note di aprile “Equilibrio delle forze”).
Le performance degli indici nel secondo trimestre sono quindi moderatamente positive, e nessuno dei principali mercati azionari, neppure quello statunitense, si è discostato di oltre il 4% dai livelli prevalenti alla fine di marzo. La nuova accelerazione del calo dei rendimenti obbligazionari ha infatti sostenuto la valutazione dei titoli azionari, tendenzialmente penalizzata dal ritorno delle incertezze. In questa fase finale del ciclo economico è meglio conservare un’analisi rigorosa dei mercati, per continuare a distinguere i rumours da ciò che è essenziale.
L’indebolimento economico generale rende gli Stati Uniti e la Cina
più prudenti nel loro conflitto
Il dibattito tra Cina e Stati Uniti condotto alla riunione del G20 alla fine del mese di giugno si è concluso, come auspicabile, ribadendo che né la Cina né gli Stati Uniti sono particolarmente desiderosi di far precipitare il mondo direttamente negli abissi di una profonda recessione. Il susseguirsi di posizioni alternativamente contrapposte, mentre questa volta l’atmosfera a Osaka era piuttosto mite, potrebbe quindi protrarsi nei prossimi mesi, in un contesto di rivalità strategiche ma anche di sfida elettorale negli Stati Uniti e di indebolimento economico generale, che nel breve termine rendono cauti i due protagonisti nel loro conflitto.
Infatti il contesto resta complessivamente insoddisfacente, in particolare con l’attività industriale ancora in calo, anche se le attività legate ai servizi, tradizionalmente meno cicliche, paiono ancora resilienti. È ciò che sta accadendo in Cina: sulla scia del G20, la pubblicazione degli indici PMI manifatturieri del mese di giugno, attestatisi a 49,4, ha confermato la tendenza al ribasso. Per il momento Pechino non pare intenzionato a intervenire nuovamente per stimolare le proprie dinamiche. Negli Stati Uniti, il tasso di crescita degli investimenti non residenziali continua a diminuire, sicuramente penalizzato dalle incertezze commerciali. In Europa, pare che gli indicatori dei servizi stiano registrando una lieve ripresa (come l’indice Markit Services PMI della Francia, che si è rafforzato passando a giugno da 51,6 a 53), ma la recessione manifatturiera sta mostrando solo pochi timidi segnali di stabilizzazione, in particolare in Germania (Indice Markit manifatturiero pari a 45 a giugno, rispetto a 44,3 a maggio). Paradossalmente questo contesto, a priori poco allettante, favorisce comunque i mercati a breve termine. Poiché, oltre ad arginare il rischio immediato di escalation delle ostilità commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti, lo scenario di crescita debole ma grosso modo stabile fa sì che le Banche Centrali continuino ad adottare un tono accomodante ma non ancora allarmista.
A medio termine, si fa strada l’esigenza di un ricorso
massiccio a contromisure finanziarie
Tra le cause del rallentamento globale, sarebbe attualmente molto rischioso attribuirne le rispettive quote di responsabilità a: 1/ il deliberato rallentamento avviato dalla Cina nel 2018; 2/ gli effetti deleteri della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sulle dinamiche degli investimenti industriali; e 3/ l’inasprimento inopportuno delle politiche monetarie condotte lo scorso anno. Questo mix di fattori, di cui non si conoscono le proporzioni, solleva principalmente un interrogativo: il ritorno all’allentamento monetario che le Banche Centrali sono in procinto di effettuare, sarà sufficiente per invertire la tendenza di tutte le cause di rallentamento, a maggior ragione se l’economia cinese continuasse a essere sotto pressione?
A breve termine, la questione ha poca importanza: è probabile che i mercati siano soddisfatti del nuovo atteggiamento proattivo assunto dalle Banche Centrali, in un contesto economico e politico momentaneamente rassicurante.
A medio termine la sfida è cruciale: la politica monetaria “non convenzionale” si sta ovviamente esaurendo. Nell’Eurozona, in particolare, cosa ci si potrebbe aspettare da un nuovo piano di acquisto titoli o da una riduzione dei tassi di riferimento, quando si osserva che la Francia sta già finanziandosi a 10 anni a un tasso negativo, mentre la Spagna si finanzia al tasso dello 0,2% sulla stessa scadenza? Di conseguenza, nonostante livelli di indebitamento già molto elevati si fa strada l’esigenza di un ricorso massiccio a contromisure finanziarie, sia in Europa che negli Stati Uniti, coordinate con il sostegno delle Banche Centrali. La prospettiva di questo inevitabile aiuto dalle politiche forse chiarisce, e addirittura giustifica, la nomina di Presidenti di Banche Centrali maggiormente dotati di una formazione giuridica e di una comprovata intelligenza politica, piuttosto che di competenze nei tecnicismi della politica monetaria. Rimane tuttavia il problema delle implicazioni che questa importante inversione di tendenza potrebbe avere sui mercati obbligazionari e azionari a tempo debito, che da dieci anni a questa parte devono confrontarsi solo con la repressione finanziaria e il rigore di bilancio.
Per il momento, la strategia di investimento che continua ad essere giustificata in questa fase del ciclo economico si fonda su tre pilastri: in primo luogo un portafoglio azionario core costituito prevalentemente da titoli growth, per i quali la selezione titoli risulta determinante, in un segmento di mercato diventato costoso. In secondo luogo, una flessibilità sufficiente per sfruttare i movimenti di mercato intermedi insiti in queste fasi di transizione, e rafforzati da posizioni pubbliche assunte in un contesto di programmi di politica interna. L’impiego parziale e molto rigoroso di strumenti derivati discrezionali consente di non subire i contraccolpi del successivo alternarsi di speranze e delusioni. Infine il terzo pilastro, quello sul fronte obbligazionario; un posizionamento sulla curva dei tassi d’interesse, che sfrutta la nuova visibilità sull’allentamento monetario posto in essere dalle Banche Centrali. In questo caso, la regola fondamentale è quella di diffidare di rendimenti negativi privi di logica e focalizzarsi sulle obbligazioni, governative e corporate, dei paesi sviluppati ed emergenti che offrono sufficiente remunerazione del rischio.
Fonte: Bloomberg, 03/07/2019